LA GUERRA DEL DONBASS ATTRAVERSO GLI OCCHI DI SARA REGINELLA

La guerra del Donbass, da alcuni definita “guerra dell’Ucraina orientale”, scoppia ad aprile 2014. Testate giornalistiche e televisive si occupano subito dell’argomento, ma dopo un iniziale interessamento sulle rivendicazioni delle due parti, l’attenzione giornalistica devia sullo scenario geo-politico che vede coinvolte altre nazioni (in particolare Stati Uniti e Russia). Si parla per un po’ delle sanzioni economiche nei confronti della Russia, poi tutto passa in secondo piano fino a sparire quasi completamente dai mezzi di informazione di massa. Eppure lo scontro fratricida continua da anni. Il pluripremiato film documentario “Start Up a War -Psicologia di un conflitto-” rappresenta uno dei più importanti lavori di questi anni, atto a portar conoscenza sugli accadimenti del Donbass, sviscerando alcuni aspetti per lo più sconosciuti a tutti noi. Abbiamo incontrato Sara Reginella, ideatrice e regista di questo progetto e, approfittando della sua gentilezza, le abbiamo posto alcune domande:

Sara, per immergersi in un contesto così difficile e portare a compimento un progetto così importante ed estremamente complesso, servono motivazioni forti. Cosa ti ha spinto a farlo?

Me lo chiedono in molti e posso dire che tutto è iniziato nel 2014, a partire dalla rabbia e dal profondo senso d’impotenza che ho provato nel constatare gli effetti della censura di guerra. Mentre nell’estate di quell’anno la popolazione del Donbass veniva massacrata, il mondo occidentale ne occultava la notizia. A parte rare eccezioni, era possibile reperire informazioni soltanto attraverso media e agenzie di stampa che stavano dall’altra parte del mondo. La censura era in atto e dopo la forte visibilità data dai media, pochi mesi prima, al fenomeno dell’Euromaidan venduto come una svolta democratica per l’Ucraina, e non come un golpe filo-nazista con cui è stato allontanato un presidente democraticamente eletto, occorreva celare che il nuovo potere ucraino, acclamato come l’emanazione di una fiammante democrazia, fosse in realtà coinvolto in interventi bellici contro la popolazione delle regioni di Donetsk e Lugansk, in Donbass, regioni che si erano ribellate al golpe di Kiev. Il modo in cui la popolazione occidentale veniva manipolata era degno di una nuova guerra fredda. L’unico modo che ho trovato all’epoca per non continuare a sentirmi così impotente, è stato quello di attivarmi in prima persona, tentando di fare qualcosa. È iniziato tutto così, dal mio primo video e, da allora, non mi sono fermata.

Sara Reginella

Ti abbiamo scoperta come una bravissima regista/reporter, ma sei anche psicologa e psicoterapeuta. Quanto c’è dell’una e dell’altra in questo tuo progetto?

Nel mio modo di approcciarmi al documentario e al reportage c’è molto dello sguardo della psicologa. In “Start Up a War Psicologia di un conflitto” ho cercato di costruire un modello di lettura geopolitico usando la lente d’ingrandimento della psicologia. In “Le stagioni del Donbass” ho utilizzato una narrazione degli eventi a partire dagli stadi del ciclo vitale dell’individuo, così come sono abituata ad ascoltare le narrazioni delle storie di vita dei miei pazienti. Similmente in “I’m Italian”, il mio primo lavoro sul Donbass, ho utilizzato la metafora perturbante del doppelganger per raccontare la spaccatura interiore del popolo ucraino diviso dalla guerra, ma anche quella della popolazione occidentale, completamente scissa da narrazioni parziali che raccontano solo una visione del mondo. In campo narrativo, in cortometraggi come “Radical Camp”, in cui mostro alcune problematiche adolescenziali connesse a xenofobia e a distopici regimi dittatoriali, l’aspetto sociale è intrecciato con quello psicologico. Questo taglio è presente anche nel corto su cui sto attualmente lavorando, “La stanza di Altea”, che verrà alla luce nei prossimi mesi, e in un libro di memorie di viaggio sul Donbass, che sto scrivendo in queste settimane. Lo sguardo “psicologico”, se così vogliamo chiamarlo, è uno sguardo che cerca di essere empatico, che penetra in profondità e abbraccia tutte le sfumature dell’interiorità umana. Per quanto invece riguarda la mia attività come psicoterapeuta, non posso dire che il mio approccio registico entri direttamente nel setting terapeutico. Ciò metterebbe in estremo disagio sia me che il paziente. Il punto di contatto tra i due mondi, però, c’è nella misura in cui per creare, ideare e lavorare terapeuticamente, cerco di entrare in rapporto con un sentire più intuitivo, lo stesso sentire che è collegato a ogni immaginazione creativa. Penso infatti che quando si pensa una sceneggiatura, si progetta un reportage, una messinscena, si scrive un racconto o si entra in rapporto con un’altra soggettività all’interno di un percorso di cura, oltre alla tecnica, che è fondamentale, sia importante questo prezioso sentire intuitivo che va al di là della logica e che offre la direzione per un percorso autentico. È un livello di sentire e di conoscenza non nutrito dalla razionalità, ma su cui poi si inseriscono il sapere tecnico, il metodo e il processo creativo. Per quanto mi riguarda, questo è il punto di contatto tra le due aree.

Secondo te c’è un “modello psicologico” che si può applicare ai conflitti geo-politici di questo tipo?

Sì, assolutamente ed è il modello che ho pensato e proposto in “Start Up a War”. Esso si fonda sull’idea che sia possibile applicare ai conflitti geopolitici strumenti di lettura propri dei conflitti relazionali tra individui. Nel documentario ho indagato il tipo di conflitto geopolitico che si sviluppa a causa di processi d’interferenza esterna simili a quelli che osservo nel mio lavoro di psicoterapeuta, quando nelle famiglie, ad esempio, mi capita di osservare l’istigazione di un soggetto anche all’interno di meccanismi di coalizione altamente distruttivi. Allo stesso modo, durante l’Euromaidan, politici occidentali erano presenti a Kiev: incitavano il popolo ucraino contro il proprio Governo, legittimamente eletto, interferivano e al contempo gli estremisti neonazisti attuavano il golpe. Quando un individuo o un gruppo istiga una parte contro un’altra, si osservano meccanismi il cui risultato è la distruzione ed è questo ciò che cerco di spiegare in “Start Up a War”.

Quanto incidono le ingerenze di altre nazioni, in particolar modo di Stati Uniti e Russia in questo conflitto?

Gli Stati Uniti hanno chiaramente fomentato il golpe in Ucraina. Sul palco di Euromaidan a Kiev si era presentato direttamente il senatore McCain a fomentare la folla. È stato l’ennesimo tentativo d’ingerenza degli Stati Uniti attuato sulla scia delle rivoluzioni colorate, con la differenza che in questo caso, anziché ripristinare le teorie di Gene Sharp e dell’Albert Einstein Institute, si è osato di più e ci si è direttamente serviti di una manovalanza neonazista di estremisti che fanno capo a movimenti e partiti direttamente ispirati al nazismo, quali Svoboda e Pravi Sektor. La popolazione del Donbass, che ha viva nella memoria l’occupazione nazista di quelle terre durante la Seconda Guerra Mondiale, ha reagito con una resistenza importante non solo per quelle regioni, ma per tutta l’Europa, per tutto il mondo. Per rispondere alla vostra domanda aggiungo che in Donbass la scelta politica di optare, attraverso il referendum dell’undici maggio 2014, per delle Repubbliche Popolari, distacca in parte il destino del Donbass da quello della Federazione Russa, la cui configurazione politica ed economica odierna non si avvicina a quella delle Repubbliche Popolari. Allo stesso tempo però, va detto che la Russia è intervenuta nel supportare la popolazione con aiuti umanitari, con il ripristino delle pensioni congelate dal Governo Ucraino e con l’iniziativa di cominciare a concedere la cittadinanza ai residenti del Donbass. In questa regione, inoltre, si parla la lingua russa e lo stesso universo russo è forte e presente in modo massiccio. A ciò va aggiunto che l’ingerenza statunitense in Ucraina è stato chiaramente un tentativo di minacciare la Russia. L’obiettivo della NATO è quello di continuare a circondare la Federazione con le proprie basi militari e destabilizzare e assoggettare paesi politicamente non allineati, attraverso nuovi governi servili agli Stati Uniti d’America. La storia mostra come i paesi che entrano con la forza nell’orbita statunitense, poi sono costretti a svendere le proprie ricchezze e a lasciarsi depredare. In Donbass si è voluto evitare che questa ingerenza provocasse sciagure economiche e sociali come quelle che erano seguite al crollo dell’Unione Sovietiche, quando politiche liberiste si erano abbattute sui paesi dell’ex blocco socialista, impoverendo la popolazione in una crisi economica e sociale gravissima. In questo senso, il comandante del battaglione Prizrak, Alekseij Mozgovoy, prima di essere ucciso in un attentato terroristico, più volte aveva ribadito che il conflitto del Donbass è connesso a uno scontro tra Russia e America in cui la popolazione delle autoproclamate repubbliche e quella ucraina sono finite per farsi la guerra in modo assurdo, perché se si esclude la follia della frangia neonazista, gli Ucraini e il popolo del Donbass desiderano perlopiù le stesse cose: un sistema sociale ed economico diverso, più giusto e con meno diseguaglianze. Nonostante ciò, la popolazione è stata spaccata con un’ingerenza esterna e un popolo fraterno si è ritrovato a uccidersi e a farsi la guerra.

Un’opera pluripremiata nel mondo

Come viene vissuta la guerra dalle due diverse fazioni e quanto la realtà che hai visto è diversa da quella che viene raccontata dai media occidentali?

I media occidentali, escluse rare eccezioni, hanno inizialmente censurato la guerra in Donbass per poi descrivere la resistenza nei territori di Donetsk e Lugansk o come una forma di terrorismo o come l’esito dell’occupazione russa. Sono stata in Donbass tre volte e diversamente da quanto raccontato, non ho incontrato terroristi. La resistenza è prevalentemente costituita dalla popolazione del posto che difende il territorio. Aggiungo che non ho incontrato militari dell’esercito russo, ma volontari russi e non solo: in Donbass ho incontrato volontari combattenti da diverse parti del mondo. Tutto questo è molto diverso da quanto raccontato dai media. Dall’altra parte della barricata non sono mai stata durante il conflitto, ma l’impressione che mi sono fatta, anche parlando con Ucraini che vivono in Italia, è la seguente: esistono Ucraini ultranazionalisti, vicini per “sensibilità” a gruppi di estremisti come Pravi Sektor, e che al fronte sostengono battaglioni nazisti come l’Azov. Sono quelli che hanno per riferimento criminali come Stepan Bandera e sventolano con orgoglio le bandiere rossonere degli Ucraini collaborazionisti della Seconda Guerra Mondiale, le stesse bandiere che in Piazza Maidan sventolavano accanto a quelle europee, immagini ben censurate dai nostri media. Poi ci sono gli Ucraini che hanno inizialmente sostenuto l’Euromaidan protestando in buona fede, perché desideravano un futuro migliore, persone che mantengono l’umanità, resistono alla propaganda e soffrono per questa guerra fratricida per cui ora, di fatto, il paese è diviso. Credo che queste persone siano la maggioranza, ma purtroppo il golpe è stato attuato da una minoranza sostenuta da un Occidente che non ha a cuore né il futuro dell’Ucraina né quello del Donbass.

Ringraziamo Sara Reginella per la grande disponibilità e ci auguriamo che, ad emergenza covid terminata, la sua opera possa diffondersi nelle sale di tutto il Paese.

By SACANDRO

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