“Le trattative” è il titolo del libro che Antonio Ingroia ha presentato lo scorso 30 luglio a Foligno, presso il Circolo Arci “Subasio”. Con lui c’erano, sul palco dei relatori, Federica Menghinella, la giornalista nel ruolo di moderatrice; Vincenzo Falasca, di “Foligno in Comune”; Francesca Cesarini, della Coop Sociale “La Locomotiva”; lo scrittore Pippo De Vita, autore di numerosi libri, tra cui “Mafia e Antimafia. Dai personaggi alle persone”.

Antonio Ingroia ha scritto “Le trattative” con Pietro Orsatti; la prefazione è di Marco Travaglio; l’introduzione di Franco Roberti; la casa editrice è Imprimatur; la vignetta in copertina è di Vauro. L’autore utilizza le sue puntuali conoscenze (il magistrato Ingroia lavorò con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) su Cosa Nostra e sulla storia della criminalità organizzata siciliana per ricostruire i rapporti tra Stato e Mafia, focalizzandosi sulla celebre trattativa dei primi anni ‘90 del secolo scorso. Notevoli sono stati gli spunti, gli stimoli che Ingroia e gli altri relatori hanno donato al pubblico durante la presentazione folignate. Un pubblico vivace che ha posto numerose domande e che ha ricordato, tra le altre cose, la permanenza negli anni ‘70 in Umbria, a Cannara, del celebre boss Stefano Bontate, fatto poi uccidere da Totò Riina, capo dei Corleonesi, a Palermo nel 1981.
Sia Ingroia sia De Vita hanno messo in evidenza l’essenza della Mafia, fenomeno sociale, politico, culturale che, com’è noto, non è riconducibile alla sola Sicilia e neanche solo all’Italia. E’ altresì nota la leggenda dei nobili spagnoli, secondo la quale nel Quattrocento tre cavalieri, fratelli tra di loro, crearono la ‘Ndrangheta, la Camorra e la Mafia. Tutti e tre erano affiliati a La Garduña, la società segreta di natura criminale operante in Spagna e nelle colonie americane nei secoli XV, XVI, XVII, XVIII e XIX. Il mito vuole che per vendicare l’onore perduto della sorella avessero lavato con il sangue l’onta e fossero poi stati condannati per omicidio a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere sull’isola di Favignana, territorio appartenente alla corona di Spagna. Trent’anni di oblio agli occhi del mondo che cambiarono i tre cavalieri. Durante gli interminabili giorni avrebbero lavorato per stabilire le regole di una nuova società improntata all’onore e all’omertà votandosi a Gesù Cristo, San Michele Arcangelo e San Pietro. Partiti dall’isola di Favigliana i tre poi si separarono: Osso si fermò in Sicilia dove fondò la Mafia; Mastrosso in Calabria dove fondò la ‘Ndrangheta; Carcagnosso in Campania dove fondò la Camorra.



Negli anni ‘70, del secolo XX, fu proprio la NCO (Nuova Camorra Organizzata) di Raffaele Cutolo a recuperare il mito, a richiamarsi esplicitamente a La Garduña e ad evidenziare lo stretto legame storico-culturale tra Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta. La “società onorata” (così camorristi, mafiosi e ‘ndranghestisti amavano ed amano definirsi) non è però dalla parte del popolo, come ha sempre voluto far credere. Non difende gli sfruttati, la povera gente e le classi subalterne dallo Stato. Essa in realtà tratta, cerca il compromesso, con quella parte di Stato pronta a piegarsi per ottenerne benefici, perché gli affari di cui si occupano gli “uomini d’onore” subirebbero un danno notevole in contingenza di guerra al potere politico e al potere economico. Mentre sul lato oscuro della luna, criminalità e devianze istituzionali cercano accordi, donne e uomini ligi al proprio dovere (facenti parte delle Magistratura, delle Forze dell’Ordine e della Società Civile) continuano a lottare contro chi cerca di portare il Paese nel baratro del malaffare. Gli “uomini d’onore”, anche quando provengono dal popolo, non amano il popolo, hanno il mito della vecchia nobiltà e dei suoi ributtanti privilegi. Nei rioni in cui una famiglia d’onore comanda, essa decide su tutto ed ostenta il suo potere. Il popolo deve essere asservito alla “società onorata” ed ovviamente non può permettersi di alzare la testa.
Ciò fu evidente quando molti camorristi della NCO andarono in carcere, negli anni ‘70 e ‘80 del secolo XX. Il sociologo genovese Emilio Quadrelli in uno dei suoi libri più noti, ristampato nel 2024, “Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta”, spiega bene cosa fossero i camorristi e come si rapportassero col resto della popolazione carceraria che all’epoca era composta prevalentemente di guerriglieri comunisti (conosciuti dall’opinione pubblica come “terroristi”) e banditi/rapinatori delle cosiddette “batterie” (batteria=banda/comunità di rapinatori a struttura orizzontale, con parità di grado fra uomini e donne, quasi sempre finalizzata a pratiche anti-capitalistiche e anti-borghesi). I camorristi (ovviamente i prigionieri affiliati a Cosa Nostra e alla ‘Ndrangheta non differiscono da questi) tentarono nelle carceri (riusciendoci) di creare loro l’ordine, un ordine mafioso che non si poneva contro l’istituzione penitenziaria, con cui anzi cercava l’accordo, bensì contro l’humus comunitario, proletario, rivoluzionario che associava per le comuni origini (la classe operaia, soprattutto del triangolo industriale) sia i guerriglieri sia i banditi/rapinatori delle “batterie”. I mafiosi nel carcere replicarono le logiche esistenti nei quartieri che controllavano: i prigionieri non affiliati erano considerati alla stregua degli schiavi, dei servi della gleba, proprietà del nobile, del feudatario, cioè del boss che comandava all’interno dell’istituto penitenziario. Chi si affiliava ovviamente diventava un vassallo, più o meno importante, del boss. E non era – ripeto – interesse del boss/feudatario andare al “muro contro muro” con lo Stato, cioè con i responsabili del carcere. Anzi…sia lo Stato sia la Massoneria (il cui ruolo non è secondario nella crescita e sviluppo di Cosa Nostra e soprattutto della ‘Ndrangheta) sia la criminalità organizzata avevano/hanno le medesime finalità di controllo sociale, politico, culturale ed economico e di eliminazione del dissenso. Ecco la logica delle trattative…, anche prima di quella su cui si sofferma Ingroia ed anche in altri contesti.
By STEFANO “VONTE” GATTI
